Diagnosi dei disturbi di personalità

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Diagnosi dei disturbi di personalità 2017-12-14T13:15:48+00:00

LA DIAGNOSI DEI DISTURBI DI PERSONALITA’

La diagnosi è il processo di raccolta e di organizzazione delle informazioni su un paziente col fine di raggiungere una migliore comprensione della persona, un processo che nella mente del clinico rimane indispensabile per poter assumere delle decisioni terapeutiche con cognizione di causa.” (Nancy McWilliams, La diagnosi psicoanalitca, Astrolabio, Roma 1999, p. 7)

Il significato del termine personalità lo abbiamo già illustrato nella parte introduttiva a questo argomento, ora parleremo, in modo più ampio e approfondito, della diagnosi e dei disturbi di personalità e, per farlo, ci serviremo del DSM-5, Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali dell’APA (Associazione Psichiatrica Americana), nella sua ultima versione pubblicata nel 2013. Questo, pur non essendo l’unico Manuale diagnostico utilizzato, ricordiamo infatti che un altro Manuale, ugualmente in uso, è l’ICD (Classificazione Internazionale delle Malattie) dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) è quello più adottato.

Il DSM-5 ha suscitato tante critiche e perplessità, tra queste ricordiamo: la difficoltà di definire chiaramente cosa sia un disturbo mentale, l’aver fatto aumentare il numero di pazienti aggiungendo, alle vecchie, nuove diagnosi che finiscono, medicalizzandoli, per considerare disturbi mentali anche comportamenti che potrebbero benissimo rientrare nella normalità, rischiando di trascurare le persone veramente malate, e di rispondere, facendo crescere in modo esponenziale le prescrizioni di farmaci psichiatrici, più che all’effettivo bisogno di cura, agli interessi delle case farmaceutiche.

Esso rimane, comunque, uno strumento di riferimento irrinunciabile per molti professionisti per la diagnosi psichiatrica, permettendo di condividere un linguaggio comune a chi è preposto a svolgere questo compito, ricordando però che è necessario evitare di considerare i concetti come fossero degli oggetti concreti, così come è indispensabile non rinunciare alle proprie capacità critiche di fronte alle definizioni contenute nel DSM, rischiando, se si procedesse in questo modo, di perdere di vista il paziente.

Per il DSM-5 la diagnosi di Disturbi di Personalità va espressa seguendo due criteri: il criterio A e il criterio B. Secondo il criterio A, si considera sia il livello di funzionamento del senso di sé, espresso da una coerente identità, sia la dimensione interpersonale, cioè la capacità di adattamento.

Quando si parla del funzionamento del senso di sé si intende sia l’identità, cioè il senso di un sé unico e continuativo, frutto della propria storia personale, separato rispetto al mondo esterno, in grado di una regolazione emotiva, provvisto di una autostima e una autovalutazione stabili. Sia l’autodirezionalità, intesa come capacità di porsi obiettivi esistenziali ragionevoli, sia come abilità nel riuscire a perseguirli, così come l’essere in grado di riflettere sulle proprie azioni.

Gli indicatori di un buon funzionamento interpersonale risiedono, invece, nella capacità di provare empatia, che si evidenzia nell’attitudine a comprendere e apprezzare le esperienze e le motivazioni degli altri, e a valutare l’effetto che le proprie azioni producono sugli altri; accogliere punti di vista diversi ed essere pronto a modificare i propri, mostrandosi flessibile.

Un secondo indicatore è da ricercare nell’intimità, intesa come il riuscire a mantenere con gli altri una relazione profonda e che duri nel tempo, coniugata con la competenza di riuscire ad essere vicini agli altri assumendo un comportamento caratterizzato dal rispetto reciproco.

E’ prevista una scala lungo la quale si può collocare il funzionamento dell’individuo, secondo livelli che vanno dal livello 0, dove non si evidenzia nessun problema, al livello 4 che segnala una estrema alterazione nel funzionamento. La presenza di un disturbo di personalità può essere presagita dall’alterazione del funzionamento e, più gravi sono le carenze, più è fondato pensare ad un quadro più grave: più disturbi di personalità o uno solo più grave.

Il criterio B indica, invece, la presenza dei tratti di personalità patologici che si collocano all’interno di cinque domini di tratto, fissati in base a delle polarità disposte lungo un continuum e che prevedono, al loro interno, 25 sotto-dimensioni. Così l’Affettività negativa si contrappone alla Stabilità emotiva, il Distacco all’Estroversione, l’Antagonismo alla Disponibilità, la Disinibizione alla Coscienziosità, lo Psicoticismo alla Lucidità mentale. Mettendo insieme i diversi aspetti dimensionali si perviene alla formulazione della diagnosi di un particolare disturbo di personalità, considerando sia il livello di compromissione del funzionamento della personalità, nelle quattro principali aree di funzionamento della personalità fissato dal criterio A, sia la presenza o l’assenza di tratti patologici in base al criterio B.

Tutte queste caratteristiche, per poter parlare di disturbo di personalità, devono essere stabili nel tempo, presentarsi costantemente nelle situazioni sociali e personali, dimostrarsi rigide e pervasive, con un inizio, della loro manifestazione, nella tarda adolescenza. In presenza di un disturbo di personalità si evidenzia la compromissione sociale e relazionale dell’individuo o un disagio soggettivo.

L’intenzione originaria, dei curatori dell’ultima edizione del Manuale, era quella di riuscire ad arrivare ad un approccio dimensionale, che racchiudesse i sintomi in aree omogenee, ma con un continuum tra normalità e patologia. Le precedenti edizioni del DSM erano caratterizzate da un approccio categoriale, basato su categorie definite considerando liste di sintomi, senza distinguere tra sintomi primari e secondari, fondamentali e accessori e la diagnosi veniva posta quando, il numero di sintomi, specificati dai criteri, varcava le soglie, fissate in modo del tutto arbitrario.

Procedendo in questo modo, ciò che sfugge è la complessità, la peculiarità di ogni individuo, in quanto, le singole categorie diagnostiche, vengono ritenute distinte e ognuna di esse esclude le altre costringendo spesso il clinico, posto di fronte alle variegate manifestazioni, con cui si presenta ogni patologia psichiatrica, a ricorrere a più diagnosi e dando luogo a molte comorbilità, cioè alla coesistenza di più patologie nello stesso individuo, come accade spesso tra le diagnosi di disturbi di personalità.

Inoltre, si rende a volte necessario, quando il paziente non rientra in nessuno dei quadri categoriali previsti, ricorrere alla categoria di disturbo della personalità non altrimenti specificato – NAS – privo di qualsiasi utilità ai fini clinici.

Questo problema si potrebbe aggirare se si distinguessero quelli che sono i tratti di personalità, che rappresentano le caratteristiche della personalità più stabili nel tempo, dai sintomi, presenti nei disturbi di personalità, ma mutevoli nel tempo. La personalità di base potrebbe manifestarsi sia in forme del tutto normali, sia in forme patologiche e associata con altri disturbi mentali.

L’approccio dimensionale considera i Disturbi di Personalità come delle varianti di tratti di personalità che confinano, fino a confondersi, con la normalità. Non è la qualità a differire, ma la quantità, all’interno di un continuum che vede, ad un estremo, la normalità e all’altro capo la patologia.

Il DSM-5 non è riuscito pienamente a superare l’approccio categoriale in quanto non è ancora chiara la patogenesi dei Disturbi di Personalità e, mantenere un linguaggio conosciuto e condiviso nella comunità internazionale, è indispensabile.