La morte del partner

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La morte del partner 2017-06-29T16:43:46+00:00

morte partnerLa morte del patner è, senza alcun dubbio, uno degli eventi più dolorosi della vita di coppia che obbliga, con il riconoscimento che l’oggetto amato non esiste più, a ritirare quelle energie che su di esso erano state investite. Può accadere che, di fronte a questo compito, si mobilitino difese che conducono ad una negazione della realtà e alla non ammissione della perdita con un persistente attaccamento alla persona che non c’è più.  Se reazioni di questo tipo sono normali quando non superano un certo periodo di tempo – generalmente due o tre anni – diventano patologiche se si protraggono oltre questi limiti, assumendo le caratteristiche della condizione melanconica.
Nella melanconia il mondo esterno perde la sua attrattiva, la capacità di amare si attenua o viene meno del tutto, l’inibizione investe qualsiasi attività e il soggetto vive immerso in autorimproveri ed autoaccuse che arrivano fino al ritenersi responsabile dell’accaduto, e che si possono tradurre in masochismo o compiacenza verso la propria sofferenza, disprezzo di sé, situazione che può anche compromettere l’esito del trattamento psicoterapico.  A rischiare questa condizione sono soprattutto le persone con uno stile di attaccamento di tipo narcisistico, nel senso che più che amare l’altro hanno amato nell’altro parti di se stessi e l’immagine di sé che l’altro rinviava e con la quale ci si è identificati, per cui la perdita dell’altro si traduce in un impoverimento di sé stessi, in una sensazione di vuoto incolmabile. A morire non è solo la persona  cara, ma è come se anche una parte di sé stessi morisse con lei. Identificandosi con la persona amata e perduta si cerca di far rivivere in sé quella persona, di conservare in sé qualcosa di lei.
Nelle forme gravi di melanconia si presentano sintomi come l’anoressia o l’insonnia e la melanconia può ciclicamente trasformarsi nel suo opposto, cioè nella mania o psicosi maniaco-depressiva, dove il soggetto cerca di dimostrare di avere superato e liquidato la perdita sostituendo in tempi brevi il patner che non c’è più con un altro e passando, spesso, da un legame all’altro in modo compulsivo. L’esito delle forme gravi di melanconia, così come di tutte le psicosi e le psiconevrosi gravi, è il suicidio, spesso compiuto nel giorno dell’anniversario della morte del patner.
Il legame fra le persone permette di crescere insieme e di arricchirsi attraverso l’esperienza condivisa contribuendo a formare quella fantasia di interezza che fa definire il patner come “la mia metà”. La morte pone fine a tutto ciò e impone un ritorno a sé stessi, una ridefinizione della propria identità che consente la possibilità di una crescita personale.
Quale è l’aiuto che la psicoterapia può offrire nel percorso dell’elaborazione del lutto? Come aiutare la persona ad accettare la morte come un passaggio, come parte integrante del processo vitale, come trasformazione che può dischiudere una possibilità creativa?
Come suggerito da Verena Kast, psicoterapeuta di formazione junghiana, nelle sue riflessioni sul lutto e la perdita, le fasi dell’elaborazione del lutto andrebbero percorse tutte iniziando da quella della negazione in cui chi è stato colpito dal lutto appare come inebetito e paralizzato e rifiuta di riconoscere la perdita, per passare alla fase in cui affiorano emozioni confuse e diverse come la rabbia verso il morto – sentimento considerato normalmente disdicevole -, l’angoscia, l’irrequietezza, ma anche i sensi di colpa.  Questi ultimi sono riconducibili agli ideali che i due patners avevano del loro rapporto e di come, invece, il rapporto è venuto a configurarsi nella realtà. E’ possibile sopportare gli inevitabili sensi di colpa causati da una morte  se si ammette che le aspettative erano superiori e irrealistiche e che, nella coppia, colpevole non è mai uno solo e i comportamenti che si sono avuti sono stati spesso una reazione al comportamento dell’altro. In questo modo si possono evitare sia le idealizzazioni, sia le demonizzazioni di se stessi e dell’altro.
A questa fase dovrebbe far seguito quella della ricerca, della scoperta e della separazione. E’ il momento in cui la persona che non c’è più viene cercata nei luoghi da lei frequentati o nelle immagini rimaste di lei sotto diverse forme o può succedere che la si sogni frequentemente o che vengano riprodotti gesti, frasi, comportamenti della persona morta. E’ necessario non indugiare troppo in questa fase perché il rischio che si corre è quello che questo ravvicinamento sia di ostacolo alla separazione, e  che si resti imprigionati in un rapporto immaginario.
Solo infine, e in questo consiste anche il compito dello psicoterapeuta, superando la paura di esporsi nuovamente alla sofferenza, aprendosi a nuove relazioni, è possibile reintegrare la vitalità persa. Allora la morte sarà una delle tante perdite, non molto diversa dalle altre che siamo chiamati, nel corso della nostra esistenza, ad affrontare, un sacrificio che è anche un’ opportunità per poter fondare la propria soggettività. E’ incoraggiando un processo di deidealizzazione e di differenziazione, di rottura della fusione sia dalle persone reali, sia dalle immagini che si hanno di loro così come di sé stessi, che si facilita la reintroduzione nel movimento della vita, dell’ignoto, dell’accettazione del rischio e dell’incertezza e la morte si inserisce appieno in questo quadro caratterizzato da dinamismo e cambiamento.