Le fantasie genitoriali prima e dopo la nascita

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Le fantasie genitoriali prima e dopo la nascita 2017-06-29T16:41:42+00:00

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La vita psichica del bambino, come ormai ben noto, non inizia alla nascita; il bambino nasce psicologicamente nel momento in cui inizia ad esistere nelle fantasie consce ed inconsce della madre, ma, in una sempre più diffusa cogenitorialità, anche del padre, dei futuri genitori che, insieme, pensano e tengono nella mente il bambino che verrà, così come, in una prospettiva transgenerazionale, delle rispettive famiglie di origine.

Il concepimento e la gravidanza

L’idea e il desiderio di avere un figlio sono diventati sempre di più, rispetto al passato, dove era pressoché assente la riflessione sull’evento procreativo, un fatto mentale oltre che fisico e il figlio viene pensato, fantasticato, immaginato prima di concepirlo o di chiederlo in adozione. Queste fantasie conducono alla formazione di una immagine del nascituro e, la continuità di questa immagine nella testa dei genitori, costituisce il preludio di quella continuità che a livello psichico gioca positivamente nel legame con il bambino che nascerà.
Nella formazione di queste fantasie, di queste rappresentazioni mentali, un ruolo importante lo gioca l’esperienza primordiale precoce con le figure di attaccamento. E’ grazie a queste che il soggetto organizza e costruisce immagini mentali di sé e dell’altro.
Secondo D. Stern il mondo rappresentazionale della futura madre  regredisce nel vissuto infantile e la gravidanza ricapitola l’intero sviluppo sia della relazione con la propria madre, sia con le molte madri che popolano la testa di una donna che decide di diventare madre e nutrono le sue fantasie tanto che si può parlare di un “plurale materno”.
Già all’inizio della gravidanza entrambi i futuri genitori sperimentano spinte contraddittorie che li conducono ad un riavvicinamento o ad un allontanamento rispetto alle rispettive figure genitoriali, mentre il loro mondo interno si popola dei fantasmi del passato. Sono questi fantasmi,  che corrispondono alle fate che nelle fiabe non vengono invitate alla cerimonia del battesimo e che si vendicano per questa dimenticanza, così come i sentimenti, soprattutto quelli negativi che hanno accompagnato la loro infanzia, che inevitabilmente intervengono nel rapporto con i figli e di cui non si è, quasi mai, pienamente coscienti.
Oscillando fra processi di identificazione e disidentificazione con la figura dei propri rispettivi genitori, mentre si riattivano le rappresentazioni riguardanti la propria infanzia, tornano a galla antiche conflittualità e ambiguità e i futuri genitori incontrano parti nascoste e sconosciute di se stessi, frammenti di sé immersi nell’inconscio e non sempre facili da integrare: violenza, rabbia, egoismo, in contrasto con quella felicità che sembrerebbe necessario mostrare fin dal concepimento e che nutre l’immaginario collettivo.
Da diversi studi effettuati risulta che le fantasie della madre, all’inizio della gravidanza, si concentrino sul corpo materno, mentre, intorno al quarto mese, quando i movimenti del feto iniziano ad essere percepiti, l’unità narcisistica fusionale tipica dei primi mesi si rompe e inizia a prendere forma la percezione del bambino come oggetto autonomo. E’ in questo secondo momento che sorgono fantasie di svuotamento, di perdita, insieme al timore di un parto prematuro.
Attorno all’ottavo mese la madre inizia a rappresentarsi il nuovo nato come altro da sé, e nel nono mese, per le gravidanze che giungono a termine, o, comunque, nei giorni che precedono l’evento, si intensificano le paure di morire di parto, la paura del dolore, la paura di partorire un bambino deforme, la paura che sia il bambino a rischiare di morire.
Da ricerche compiute risulta che nei futuri padri la fantasia prevalente è quella di essere un padre affettuoso e disponibile, non una figura autoritaria e punitiva. Emerge, così, l’immagine di una nuova paternità, più aperta all’aspetto emozionale e affettivo, meno concentrata sulle regole e sull’esercizio dell’autorità, oltre alla presa di coscienza dell’interscambiabilità dei ruoli paterni e materni.
Per quanto riguarda il figlio egli è visto, dai futuri padri, come fonte di benessere, di serenità, di felicità. Diffusa è la fantasia di vedere rispecchiati nel figlio i propri tratti di personalità, in una sorta di illusione di immortalità, di prolungamento dell’esistenza propria e della propria famiglia. Non manca, però, il timore di provare gelosia nei confronti del nascituro, paure di perdere le attenzioni esclusive della propria compagna, di vivere il nuovo nato come un rivale ed entrare con lui in un rapporto competitivo, oltre a fantasie di una accresciuta responsabilità, soprattutto economica, ma non solo, verso il nucleo familiare. E, ancora, fantasie di rivalsa nei confronti della famiglia di origine, fantasie di superamento di sentimenti di ostilità, inferiorità, risentimento, inadeguatezza risalenti ad un’infanzia problematica, fantasie di rafforzamento del legame di coppia, di affermazione del proprio ruolo, di acquisizione di una nuova identità e non mancano le fantasie di recuperare aspetti del proprio padre.
Le madri, sempre da quanto emerge da queste ricerche, associano al nascituro l’idea di benessere, di gioia di vivere, di posività.  Ma sono anche sempre presenti le fantasie di subire danni dal parto, o quella di vivere il feto come un elemento estraneo che cresce dentro di loro, un figlio vissuto come pericoloso, invasivo, capace di turbare il proprio equilibrio psico-fisico e quello della coppia. E’ da questi ultimi vissuti che potrebbero nascere problemi futuri come la depressione post-partum o un tipo di relazionalità patologica dopo la nascita del bambino.
Un timore, più che una fantasia, molto diffuso in entrambi i futuri genitori, è quello che possa nascere un bambino “non perfettamente sano”.
Di grande interesse sono anche altre fantasie rilevate da alcuni ricercatori nelle coppie in attesa di un figlio. Queste possono riguardare l’idea di un bambino salvatore, un bambino che ami senza riserve i genitori e che funzioni da risarcimento delle carenze subite nella propria infanzia. Di un bambino sostituto, che compensi una perdita o di una persona cara o di un bambino che non è mai nato o per aborto volontario o procurato o perché morto precocemente ; non è infrequente, a questo proposito, l’abitudine di dare al nuovo nato lo stesso nome del bambino morto. Di un bambino che svolge una funzione antidepressiva, immaginato come in grado di animare e rendere vive le madri inclini alla malinconia. Di un bambino che cementi per sempre il matrimonio. Di un bambino che faciliti l’accettazione da parte delle rispettive famiglie di origine che non approvano l’unione dei genitori.
La costruzione dell’immagine del feto come individuo è tanto più precoce quanto maggiore è l’investimento affettivo e minore l’ambivalenza nei confronti del bambino e della gravidanza stessa.     L’esistenza di un investimento emotivo dei genitori verso il bambino prima della nascita è dimostrata dalla reazione di lutto dei genitori di bambini che muoiono appena nati o per gravidanze interrotte per vari motivi. E la conferma dell’importanza dell’attaccamento sulla relazione futura viene dai molti casi di infanticidi, in preoccupante aumento nella nostra società, o di bambini abbandonati dovuti, in genere, al fatto che il bambino non è mai esistito nella testa della donna che lo ha partorito. Non essere pensato equivale a “non essere”; spesso la madre, in questi casi, non si accorge dell’inizio della gravidanza e attribuisce la mancanza del ciclo alle più stravaganti cause.  Quando manca il pensiero dell’altro non è possibile nessuna relazione affettiva e questo vale non solo per la madre e il figlio, ma per qualsiasi relazione.

Maschio o femmina

maschio o femminaLe fantasie sul sesso del nascituro e le preferenze per l’uno o l’altro sesso sono ancora spesso fondate su pregiudizi e modelli di ruolo socialmente condivisi. Numerose ricerche compiute su questo argomento hanno cercato di scoprire più le differenze che le uguaglianze tra i sessi e tutte risultano fortemente ideologizzate.

Da queste ricerche risulta che le bambine superano i bambini in capacità verbale, socievolezza, suggestionabilità, paura dell’insuccesso, livello di ansia. I bambini, invece, raggiungono risultati più elevati quanto a capacità spaziale, aggressività, realizzazione di sé e successo.

In realtà le differenze reali risultano minori rispetto a quelle che i luoghi comuni porterebbero a supporre e le patologie, che nel passato erano tipiche del sesso femminile, come quelle legate ai disturbi alimentari, si sono estese gradualmente anche all’altro sesso e le distanze, prima esistenti, si sono notevolmente assottigliate.

Il mito del figlio maschio, così come risulta da diversi sondaggi, comunque, resiste. Si ritiene che il maschio dia meno problemi, sia più autonomo. Il maschio, inoltre, trasmette, in una società patrilineare come la nostra, il nome della famiglia e viene per questo preferito alla femmina. Nelle società dove il controllo delle nascite, che prevede un solo figlio per famiglia, è imposto dallo Stato, le bambine vengono uccise o nascoste – come avviene in Cina – o la diagnosi prenatale, per evitare gli aborti di feti di sesso femminile, è proibita – come in India. Le cose stanno però cambiando nel nostro paese visto che ci sono già delle leggi che prevedono la possibilità, in casi particolari, di cambiare il cognome o anche di aggiungere quello della madre a quello del padre.

Nelle fantasie genitoriali il maschio aiuta di più economicamente la famiglia, almeno fin quando non si sposa, e si ritiene debba creare meno problemi dal punto di vista educativo ed anche dal punto di vista lavorativo. Se però si pensa di avere un solo figlio si preferisce avere una femmina perché “si affeziona di più alla casa”.

Le fantasie sulle figlie femmine riguardano la loro capacità di prendersi cura dei genitori quando saranno diventati anziani, il fatto che vengono ritenute più affettuose, più servizievoli, più disponibili e attaccate alla famiglia.

La preferenza dei padri per i figli maschi costituisce la risposta ad un forte bisogno di realizzare il desiderio narcisistico di essere completo e onnipotente, di rispecchiare la propria immagine nel bambino.

In entrambi i genitori la fantasia di avere un figlio del sesso opposto al proprio sembrerebbe celare l’inconscio desiderio di evitare di rivivere con il piccolo i propri conflitti familiari, mentre la fantasia di avere un figlio dello stesso sesso sembra riconducibile all’idea di poterlo utilizzare come sostegno o alleato contro l’altro genitore.

Bambino immaginario e bambino reale

bambino-con-capelli-biondiNella testa dei futuri genitori si delineano diverse figure di figlio e prende forma quello che Silvia Vegetti Finzi chiama il bambino della notte, immaginario e ideale, frutto di attese, timori, sogni, fantasie dei genitori che andrà ad interfacciarsi con il bambino reale facilitando, laddove le due immagini collimino, ostacolando, laddove le due immagini divergano, l’accettazione del neonato.

Il bambino reale è quello che interagirà, col suo bagaglio genetico e le sue particolari competemze, in quanto egli non è una tabula rasa – sempre vivace, a questo proposito, il dibattito fra innatisti e ambientalisti – ed entrerà in risonanza con la fantasmatica dei genitori basata su ciò che rappresenta il bambino per la coppia genitoriale e la coppia genitoriale per il bambino. Questa risonanza può esaudire i desideri oppure confermare le paure fantasmatiche e così verrà attribuito un senso preciso ai comportamenti del neonato, verranno fornite risposte a questi comportamenti secondo questo senso supposto e le risposte che verranno date struttureranno il comportamento del bambino.

Il bambino immaginario risulta contenere in sé l’Io ideale del padre e della madre, l’estensione di quella che Kohut ha definito la “grandiosa immagine di sé”. Queste fantasie palesano il desiderio di identificazione dei futuri genitori con il figlio, così come la ricerca di appagamento di alcuni bisogni narcisistici legati al desiderio di sé come individuo perfetto e onnipotente, in grado di riprodursi.
Si possono avanzare delle previsioni su come evolverà l’interazione genitori-bambino studiando i rapporti tra questo “fantasma del bambino”, questo “bambino immaginario” e ciò che i comportamenti del bambino reale determinano.
Quando questi rapporti soddisfano i desideri, dissolvono i timori, l’interazione ha tutte le possibilità di essere fonte di ricchezza e stimolo per entrambe le parti. Quando essi, invece, confermano le paure o determinano delle delusioni, ciò che avviene quasi regolarmente quando il bambino non è del sesso desiderato o non presenta l’aspetto immaginato o presenta qualche anomalia fisica o psichica che, in genere, viene considerata più grave se riguarda una femmina, rispetto a quelle che possono colpire un maschio, le interazioni rischiano di fissarsi in comportamenti ripetitivi sempre più patologici.

Ricordo, a questo proposito, la difficoltà ad accettare la bambina da parte di una paziente in quanto la delusione provata al momento della nascita, di fronte al colore dei capelli e degli occhi diverso da quello immaginato, era stata insopportabile.
E, ancora, il disorientamento e la conseguente difficoltà di accettazione di uno dei due neonati di un paziente, padre di due gemelli, in quanto egli aveva escluso l’eventualità che nascesse più di un bambino. Entrambi i bambini di questi due pazienti, nella loro crescita, hanno presentato problemi di diversa gravità.
Quindi se questi rapporti non possono stabilirsi  sorge il rischio di un investimento parziale o irreale del bambino. Il bambino reale, che non si modella sull’immaginario parentale, richiede un lavoro di rielaborazione del lutto del bambino fantasmatico che i genitori hanno portato nella loro mente sin da prima del concepimento.
Se le fantasie che portano all’eccessiva idealizzazione del nascituro non vengono coniugate e mitigate dalla coscienza degli aspetti negativi della genitorialità – rabbia, delusione, risentimento, stanchezza – se questi aspetti, che Jung chiamava d’Ombra, vengono scorporati, è molto probabile che si presentino problemi nella relazione con il bambino.
Diversi studi sulle madri assassine, che tanto spazio hanno occupato nella cronaca di questi ultimi anni, hanno rivelato proprio questa prevalenza, nel loro immaginario, di fantasie positive sia sul nascituro, sia sulla propria genitorialità, fantasie che, naufragate di fronte alle difficoltà emerse nell’incontro con il bambino reale, le hanno condotte a compiere un gesto estremo.

Dopo la nascita

dopo la nascitaDopo la nascita la madre ricomincia a costruire le sue fantasie. Secondo D. Stern, nel corso della gravidanza e per la durata del primo anno di vita del bambino, per la madre si configura una nuova organizzazione psichica da lui definita costellazione materna che vede al suo vertice il pensiero dell’essere madre e sarà questo nuovo assetto mentale che orienterà i suoi comportamenti e la sua sensibilità, le sue tendenze, i suoi timori e i suoi desideri, facendo riemergere le sue fantasie infantili. Questa riorganizzazione comporta, per la donna, un profondo cambiamento delle rappresentazioni di sé come persona, come moglie, come figlia, come madre.
Nasce, in questo clima, quella che D. Winnicott chiamò preoccupazione materna primaria e W. Bion reverie materna.
La preoccupazione materna primaria è quel particolare stato mentale che sperimentano le madri negli ultimi mesi di gravidanza e nei primi mesi di vita del bambino e Winnicott intende l’impegno affettivo che la mente della madre sviluppa verso il nascituro e da cui origina la successiva relazione con il neonato.
Lo definisce un coinvolgimento esclusivo e così intenso da sembrare una forma passeggera di follia, i nomignoli e i vezzeggiativi usati dalle madri quando si riferiscono al loro bambino, illustrano bene quanto sostiene questo autore.
Questa preoccupazione, pur prendendo il nome di materna, in realtà Winnicott precisa che si sviluppa in entrambi i genitori e si manifesta con una focalizzazione dell’attenzione, dei pensieri e delle fantasie, verso ogni cosa che riguardi il bambino con l’esclusione, quasi totale, di tutto il resto.
W. Bion parla di reverie materna intendendo con questo termine quella capacità della mente della madre di funzionare da contenitore delle emozioni e degli stimoli di cui il bambino fa esperienza e ai quali non riesce a dare un nome, oltre a non essere in grado di elaborarli e metabolizzarli. Sono i cosiddetti elementi beta che la madre deve restituire al bambino, depurati degli aspetti angoscianti, dotati di un significato, facilitando, in questo modo, la strutturazione della cosiddetta funzione alfa.